Presentazione

(Intervento dei curatori, Angelo Verdini e Catena Marina)

 

 

 

Rispetto al potenziale conoscitivo e formativo dei saperi che la scuola seleziona e assume a fondamento del suo curricolo, occorre riconoscere le  difficoltà, nei contesti della progettazione educativa e didattica e del fare scuola, di individuare modalità adeguate per la realizzazione di concrete esperienze di apprendimento. Il carattere dinamico che connota pratiche didattiche e esperienze formative significative, necessariamente rimanda, ad una complessa relazione e a sottili e sensibili equilibri tra soggetto che apprende, oggetto culturale e contesto educativo che si configura aperto a relazioni positive, coinvolgenti, attento all’ascolto, al rispetto e alla valorizzazione delle identità e delle diversità.

In questa prospettiva, “ Anche la scuola è la mia casa, ovvero il cantiere dell’utopia”, vuole dar voce alla riflessione sull’operare e sul vivere la scuola, offrire opportune strategie per il superamento di disagi, cogliere segnali d’interesse, individuare motivazioni, sui quali  costruire consapevolezze e saperi efficaci e trasferibili.

La finalità posta a fondamento  di questo percorso è quella appunto di offrire al pensiero la possibilità di esercitarsi a pensare qualcosa di diverso dal consueto, riconoscendone la capacità costruttiva,  attraverso la riflessione, il confronto, la comparazione di contesti e vissuti dell’educare da parte dei protagonisti dell’educazione.

L’azione progettuale si muove sulle tracce della declinazione di un percorso, anch’esso confluito in una pubblicazione, dal titolo: “ La continuità narrata, ovvero io cresco e deve crescere anche quello che è fuori di me”, rispetto al quale presenta forti analogie strutturali e organizzative.

Il titolo  trascende ogni possibile interpretazione che rimandi a insidie, “trappole” per i bambini, per gli alunni in genere, rinvia, piuttosto alla qualità dell’abitare connotata da una rassicurante sintesi di affetti (quantomeno a livello simbolico, perché è innegabile che nella realtà sempre più spesso ci sono  smentite) e crea un  parallelo  tra casa e scuola come i due contesti più vicini e vissuti del vivere e dell’imparare. In questa ottica la scuola, nella sua motivazione istituzionale,  vuole essere  uno sfondo rassicurante e fiducioso dell’insegnamento e dell’apprendimento, in tutte le sue possibili modalità:  individuale, cooperativo, solitario o “mischiato”.

Il sottotitolo “Il cantiere dell’utopia”, è un debito rimando alla ricomposizione degli affreschi della Basilica di San Francesco di Assisi, danneggiati con il terremoto del 1997, e vuol porre l’attenzione su quelle che sono le capacità, le competenze di coloro che si adoperano per questa ricomposizione: pazienza, precisione, curiosità nell’esplorare e scoprire, creatività, intuitività, capacità di analisi, sguardo d’insieme, supportate da importanti e capillari conoscenze sullo specifico. Ciò potrebbe assomigliare e/o avvicinarsi al contesto dell’insegnare e dell’imparare e agli atteggiamenti messi in atto dai protagonisti.

La presente pubblicazione raccoglie e  documenta il percorso messo in atto nel corso dell’anno scolastico 2001/2002in rete locale tra l’istituto comprensivo di Pergola e l’Istituto comprensivo di San Lorenzo in Campo, messa in atto con ottimi risultati in altre occasioni.

Il percorso si caratterizza per il metodo della ricerca-azione che permette il coinvolgimento attivo e interattivo di tutti i soggetti coinvolti, la continua rimodulazione e riadattamento dei percorsi e delle fasi, non costringe in rigidi schematismi e  offre larga flessibilità nelle scelte, nelle strategie nelle modalità di attuazione. Esso si muove attraverso la riflessione, il confronto, la comparazione, l’ideazione e l’evoluzione emotiva degli operatori (insegnanti e alunni) sui due contesti stimolo che sono appunto la casa e la scuola e, a partire da una fase di libera associazione mentale, si ha via via un crescendo di  riflessione ed elaborazione concettuale  nelle successive fasi in cui è richiesto di descrivere strutturalmente, emotivamente, relazionalmente i contesti casa-scuola, i soggetti che vi vivono e vi operano, per giungere poi alla capacità di soffermarsi sugli apprendimenti che questi contesti nel loro essere vissuti con tutte le relazioni, interazioni, scambi e accadimenti che in essi avvengono, permettono di raggiungere e costruire e per infine pensare in modo fattibile e potenzialmente migliore all’eventuale modificazione e/o trasformazione degli stessi.

La parte principale dell’opera si compone di cinque capitoli che raccolgono testi e disegni particolarmente significativi, accattivanti, originali di alunni e insegnanti, circa le proposte stimolo, ognuno dei quali si conclude con il paragrafo “Di pietra in pietra”, una sorta di sintesi e riflessività di ogni fase, che ha lo scopo di fissare quanto è stato assunto nel farsi del percorso, alcune riflessioni emergenti che permettano di essere socializzate e rielaborate per dar luogo a nuove esperienze e a importanti acquisizioni/apprendimenti che abbiano il carattere della solidità, del perdurare nel tempo e nello spazio.

Altri due capitoli individuano l’uno  tracce per il futuro che si orienta verso l’educazione al pensare, al fare  filosofia nel ciclo primario dell’istruzione e l’altro che analizza e commenta in chiave quasi poetica il percorso,  lanciando fecondi e urgenti segnali per l’autotrasformazione.

Destinatari e protagonisti dell’azione sono stati alunni e insegnanti rappresentativi di tutti gli ordini scolastici e di tutti i comuni dei due istituti comprensivi.

Il coordinamento del progetto è stato affidato a Verdini Angelo, Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo di Pergola, e a Catena Marina, funzione strumentale per la continuità nell’Istituto comprensivo di Pergola; hanno collaborato e contribuito  alla cura della redazione Conti Maria Cristina e Faggi Grigioni Silvia, entrambe funzioni strumentali all’interno dell’istituto comprensivo di Pergola rispettivamente per il coordinamento delle attività di educazione interculturale e per il coordinamento dell’utilizzo della biblioteca.

Di fronte ad alcuni inquietanti indizi di inutilità dei pensieri e della valorizzazione dei loro difensori/sostenitori, in quanto sopraffatti dalla velocità dell’efficientismo e delle compatibilità aziendalistiche, “Anche la scuola è la mia casa”, attribuisce e riconosce cittadinanza ai pensieri, offre loro un canale di espressione, riconosce e sostiene la loro dignità, la loro intima fragilità, la loro delicatezza, la loro necessità e soprattutto valorizza la loro energia portatrice di trasformazione in se stessi e verso i contesti dell’operare, ne garantisce l’ascolto, sostiene l’incontro, la divergenza e il confronto tra i pensieri dal quale possono nascere piccole e grandi modificazioni su se stessi, sugli ambienti di vita, immaginando al loro interno anche possibili interventi. Questo è quanto può essere rintracciabile nei testi e deducibile dalle immagini e disegni che la presente pubblicazione raccoglie; elaborati che hanno la parvenza di trattare contenuti  ampiamente presenti nella pratica ordinaria della vita scolastica ma qui riproposti, ricontestualizzati in uno scenario non statico e predefinito ma aperto, disponibile all’ascolto e all’attenzione, ricco di valori, di scambio e di circolarità perché tutto ciò che entra o che circola a scuola va comunque assunto.

Abbandonando la smania dell’efficientismo e la rigidità di ruoli e relazioni, ognuno è divenuto protagonista della sua esperienza educativa partecipe del farsi della sua formazione.

Anche la scelta del disegno di copertina appare in questo senso significativa, in esso  possono essere immediatamente colti, rintracciati, individuati la rotondità, la circolarità, la pluralità, la diversità ma anche la compattezza, il senso di solidarietà, la comunità di sguardi, parole e gesti,  le relazioni interne, rinviando ad  una relazione educativa  che lascia trasparire e traspirare  un   clima favorevole  per pensare per fare per vivere.

Un particolare ringraziamento va alla Regione Marche, Assessorato all’Istruzione, Servizio Formazione Professionale, che ha reso possibile la pubblicazione.

 

Pergola, settembre 2004

 

 

 

Premessa

 

(Intervento pedagogico sull’esperienza e sui suoi dintorni

a cura di Maria Arcà)

 

 

Tantissimo tempo fa un grande maestro, Alberto Manzi, aveva scritto una serie di libretti  intitolati “Zupack: a casa come a scuola”. Erano i “compiti per le vacanze” di allora, pieni di  frasi buffe di cui bisognava capire il significato, di  definizioni strampalate, di giochi di parole, di indovinelli,  di curiose definizioni  raccolte tra i bambini, di consigli per ricordare meglio, di disegni da interpretare e completare. Rispecchiavano un modo di fare scuola provocatorio e intelligente in cui gli schemi tradizionali del sapere erano messi in discussione: la geografia si studiava esplorando quello che c’era fuori della scuola, e i “temi” su cui i ragazzi dovevano scrivere erano del tipo: “Come mi soffio il naso” o “Come mi allaccio una scarpa”, immancabilmente seguiti da una precisa rappresentazione gestuale delle indicazioni date dai ragazzi e che mai portavano a soffiarsi il naso o ad allacciarsi le scarpe. Almeno nel segreto delle coscienze, i genitori erano abbastanza preoccupati e certo non avrebbero voluto che i bambini facessero a casa quello che, almeno secondo il titolo, si faceva a scuola. Il  loro desiderio nascosto era, come sempre, quello di avere un figlio adeguato agli altri, che non sfigurasse,  che imparasse quello che bisognava imparare, senza troppe preoccupazioni sulla creatività o sulla comprensione profonda...

I ragazzi erano felici? Ovviamente, come sempre, alcuni sì ed alcuni no: quelli che erano riusciti ad entrare nel gioco di un sapere da costruire e non da ricevere, talvolta elaboravano idee geniali e talvolta si sentivano incapaci o frustrati; quelli che non volevano partecipare si trovavano più a disagio, ma c’era spazio anche per chi non riusciva a seguire il ritmo degli altri. Un po’ di infelicità  sembra inevitabile, sia nella casa come scuola che nella scuola come casa… e forse saperla affrontare fa parte della vita, sia dei grandi che dei piccoli.

 

Nella raccolta dei testi e disegni  della scuola di Pergola si incontrano bambini che parlano della casa e della scuola come di luoghi “a felicità limitata”,  in cui le cose che fanno male capitano in modi imprevedibili,  e non sono quasi  mai premeditate.  A scuola come a casa si sente l’aspirazione a vivere in un mondo ideale,  sereno e non sfiorato da conflitti, ma l’ “amorosa fedeltà” ad  un mondo di giustizia si scontra continuamente con un mondo reale  condizionato da volontà altre e dall’intreccio di eventi incontrollabili. Casa  e scuola sono gli spazi della esperienza, ed è lì che si costruisce la capacità di amare e di costruire, di avere e dare felicità, di crescere con coraggio o di imparare la paura, ma per  sopravvivere bisogna imparare  a rispettare  regole non sempre gradite, che pongono vincoli alle possibilità di realizzare i propri  irreali desideri. 

Il divario tra il mondo reale e il mondo immaginario, quello in cui – se ci fosse- ci si starebbe proprio bene, aumenta e diminuisce anche nelle varie situazioni familiari. Nel mondo immaginario i genitori non litigano e hanno tempo a disposizione dei figli, niente mina la fragilità di una pace domestica. A casa è più facile vivere da protagonisti, sentirsi unici  almeno negli spazi segreti in cui ci si va a rifugiare.  Così molti bambini raccontano delle solitudini cercate in luoghi amici e in appropriati nascondigli, degli animali che accolgono le brevi tristezze o dei  compagni con cui  si scappa per sopportare e dimenticare le delusioni.

 

Ma cosa fa male a questi ragazzini che dall’età di circa tre anni vivono con alterne amicizie e con insegnanti più o meno disponibili, in una comunità scolastica? E cosa allieta, invece, la loro quotidianità

C’è un proverbio calabrese che dice: chi ha, è, chi non ha, non è. Nella brutale secchezza di questa frase sembra, a volte, di trovare una chiave per capire meglio, e per interrogarsi su cosa i bambini vorrebbero avere per poter essere. I più ingenui lo dicono chiaramente: vorrebbero avere segni di stima e di accettazione da parte dei  loro adulti, genitori o insegnanti che siano. I momenti in cui si sentono di essere sono quelli in cui anche gli altri si accorgono della loro esistenza e, in un modo o in un altro, la certificano positivamente.

Questa inesauribile richiesta di “certificati di esistenza” richiede una attenzione particolare, specifica per ogni bambino, all’insegnante che ha come riferimento, quasi sempre, una classe più o meno numerosa.

Nella continua richiesta di poter esistere, i ragazzi non si sentono ascoltati, e se sono capaci di giustificare le mamme  stanche per i lavori domestici, i padri stanchi per i lavori fuori casa, e i nonni stanchi per i lavori nei campi sono assai meno disposti a giustificare la disattenzione di un insegnante. Fino al paradosso:

(Le insegnanti) Dicono di parlare, poi se dico quello che penso si arrabbiano e ridono sempre. Se parlo normale si mettono a ridere e non prendono sul serio la cosa, se mi arrabbio e glielo dico mi mettono in punizione, allora cosa parlo a fare! Anzi, cosa dicono di parlare a fare!?

Non si tratta di un caso particolare né di insegnanti  particolarmente insensibili: è uno dei tanti piccoli “oltraggi” che bambini e bambine ricevono quotidianamente e che incidono righe di malessere, talvolta di sofferenza, nella superficie interna della loro personalità , all’esterno, volendo, potrebbe vedersi qualcosa, ma di solito nessuno vede niente.

Una interrogazione andata bene, i calcoli ben fatti ... un “bravo” detto con compiacimento significano, per ogni bambino, un riconoscimento della propria esistenza, il segno di essere adeguato alle aspettative; se si subiscono ingiustizie si impara ad odiare i professori o a disprezzare le insegnanti, togliendo anche a loro qualcosa di importante, qualcosa che avrebbe potuto farli essere.

A scuola, essere protagonisti è difficile e  quando non si trova spazio per manifestare la propria personalità lo star male diventa palpabile, trasformato nell’impossibile desiderio di abolire vincoli e strutture esterne ma anche  in quello, talvolta altrettanto impossibile, di condividere con gli altri le stesse idee, sfuggendo con questo alla morte per solitudine :

Vorrei la scuola come un’oasi dove non si fa niente, strutturata come un grandissimo spazio vuoto dove puoi giocare e fare quello che ti pare. Meglio senza organizzazione, come nell’anarchia assoluta, dove tutti hanno le stesse idee e chi non le ha viene ucciso.

 

Nelle elementari l’universo scolastico visto e raccontato dai bambini è popolato di bidelle che strillano, di supplenti da imbrogliare, di maestre che non si distraggono mai: si avverte lo spirito di bambini ancora ribelli “tenuti” un po’ controvoglia in un luogo di cui non apprezzano o non condividono il significato. Lo stesso mondo  visto dalle insegnanti sembra abbastanza diverso, e talvolta l’ansia di non riuscire a condividere la scuola con  i ragazzi si manifesta nei buoni propositi di dare maggiore attenzione alle loro effettive esigenze. Nella Media, il senso di appartenenza è ormai costruito, i ragazzi sentono che la scuola è fatta per loro, integrata nella loro vita sia come luogo fisico che come  luogo mentale. Le descrizioni di tipo “edilizio” parlano di ampi spazi a disposizione (con  bagni piuttosto stretti!) adatti per una vita sociale ricca e serena; nelle note dei giovani studenti  sembra di cogliere una paziente solidarietà con gli insegnanti con cui bisogna vivere la giornata Si capisce che la scuola non è solo giardino e architettura ma è anche persone, gesti, abitudini, pregiudizi,  e lo sguardo riesce a coglierla come luogo in cui si gioca una parte della propria vita.

Dunque, con tutti i suoi limiti, la scuola come luogo di socializzazione sembra in grado di realizzare scopi e aspettative;  i desideri sono sostanzialmente  appagati e  le proposte di miglioramento riguardano più che altro il  benessere psico – fisico ed emozionale,  lo sviluppo di  relazioni affettive caratterizzate da maggiore intensità.

Ma forse non si va a scuola solo per questo.

Il lavoro quotidiano  di insegnamento e di apprendimento ha poco spazio nelle riflessioni degli adulti e dei bambini, come se fosse una inevitabile conseguenza dello star bene e non richiedesse altra e più mirata fatica. Alcune insegnanti rimproverano a se stesse di essere troppo legate al programma (il cui tradizionale armamentario di nozioni si rivela sempre più obsoleto) ma non ci sono troppi  rimpianti sulla progressiva perdita di una quantità di abitudini cognitive che, negli adulti prima ancora che nei bambini, sostengono i processi educativi. La vita a  scuola sembra immersa in un eterno presente, in cui non si percepisce il senso dell’andare, del cammino da fare insieme. Questa stessa sensazione di non-progresso riecheggia nelle frasi delle insegnanti che non si accorgono di tutto il lavoro svolto e rimpiangono di non aver fatto abbastanza.

 

 Al di la del nozionismo scolastico, accompagnato dalla speranza di rispondere positivamente ai test di valutazione, l’insegnamento potrebbe uscire almeno un poco dalla routine e trovare una parte del suo significato nel confronto concreto con i fatti che succedono. Proprio il continuo rimando tra  esperienza di vita ed esperienza di scuola potrebbe costruire nei ragazzi importanti strumenti di conoscenza, utili anche al di fuori dei contesti specifici e agganciare l’apprendimento a fatti più vicini alla esistenza quotidiana. Dalla concretezza della vita, infatti, si diramano conoscenze e riflessioni che  possono dare forma  e significato  anche a saperi apparentemente poco interessanti.  Per  trovare  spiegazioni ai fatti e ai fenomeni “normali” bisogna dilatarli nel tempo e ricostruire la storia degli eventi che si sono concatenati per provocarli; bisogna proiettarli sul futuro e cercarne le conseguenze e gli effetti prevedibili a  breve e a lungo termine (questo richiede tempo, lavoro mentale e approfondimento culturale). La ricerca di causalità non lineari  diventa necessaria quando ci si accorge che nessun fatto è isolato ma è intrecciato in reti di correlazioni con altri fatti che ne determinano o ne influenzano  lo svolgersi.

D’altra parte, se i fenomeni aprono alla ricerca di cause e correlazioni, al tempo stesso rappresentano una verifica dei sistemi di pensiero costruiti per spiegarli. I fatti non puniscono gli errori ma non si lasciano neppure sedurre da tentativi di interpretazione superficiali e che non corrispondono alla loro natura, al loro effettivo svolgersi. La “durezza” del mondo reale porta così i ragazzi a confrontarsi con un sistema per niente indulgente, che invita a non crogiolarsi sulle semplici risposte a un test, ma  spinge a cambiare interpretazioni e ad immaginare nuove idee, modellandole proprio su quegli aspetti che si rifiutavano di concordare con le spiegazioni precedenti. 

Per altri aspetti, vivere in un mondo di effetti senza cause porta ad una deresponsabilizzazione che a lungo andare si rivela  frustrante: ci si sente trascinati dagli eventi e non si hanno strumenti per dirigerli  secondo i propri desideri. Viceversa, la ricerca di possibilità  alternative stimola strategie di pensiero che danno un senso al susseguirsi concatenato delle idee e porta ad una maggiore accortezza nella ricerca di indizi che, passo passo, possano sostenerle. Porta anche ad immaginare storie o ricostruzioni mentali  che mettano in evidenza gli aspetti nascosti di  un fenomeno, lo s-correlino dalle correlazioni che lo vincolano, lo dilatino del tempo e nello spazio, lo modifichino in modo mirato per valutare, così,  l’effetto delle  variazioni  immaginate o realizzate. I ragionamenti del “se… allora…” cioè la capacità di mettere relazioni tra cause e conseguenze è utile anche per evitare malestri o disastrose sgridate in casa.

 Il protagonismo di cui i ragazzi sentono tanto la mancanza potrebbe diventare un protagonismo di conoscenza, fondato non tanto sulle lodi (quanto arbitrarie?) delle maestre quanto su quelle che i fatti danno a chi sa capirli e trasformarli. La fatica del capire non è imposta da una autorità a cui bisogna più o meno volentieri obbedire ma dalla struttura stessa delle cose: diventa simile a quella dei costruttori delle belle case in cui i bambini vivono, a quella degli architetti che ristrutturano vecchi casali del 600 senza guastarne l’intima bellezza, la pietrosa compostezza.

Gli architetti saggi non possono trasformare a loro piacere le strutture esistenti ma devono capirne il significato profondo per valorizzarlo al meglio, impegnando intelligenza e fatica. Così, per gli insegnanti, il rispetto della personalità dei bambini può spingere a non desiderare per loro una precoce ed imposta omologazione ben valutata,  ma a cercare di “ripulire la strada adatta ad ognuno”, in modo che ognuno possa camminarvi più facilmente.